Enzo Paolo Gavazzoni, pittore in Torino
14 giugno 2013
Enzo Paolo Gavazzoni nasce a Cuorgnè (TO) il 6 settembre del 1952.
Ha frequentato tra il 1966 e il 1970 il Liceo Artistico Accademia
Albertina e, in quella stessa sede, l'Accademia di Belle Arti. Tra i
suoi insegnanti ricordiamo Piero Ruggeri, Saroni, Chessa, De Valle,
Soffiantino.
L'intervista
D. Qual'è il motivo essenziale che ti ha condotto ad esprimerti
attraverso la pittura?
R. Forse il motivo principale corrisponde alla svolta finale della
mia ricerca interiore, che parte probabilmente dopo i diplomi al
Liceo Artistico Accademia Albertina e alle Belle Arti dello stesso
istituto a Torino.
Terminati gli studi, avevo subito intrapreso la professione di
arredatore, ma quattro anni fa (2009) la solida formazione, ricevuta
e mai dimenticata, mi ha spinto a interessarmi di nuovo di arte. A
sessant’anni ho deciso di approfondire le mie passioni giovanili e
da quel momento a ripreso a formarsi il desiderio di dipingere.
D. Come nasce la tua opera pittorica?
R. Al secondo anno di liceo artistico nasce in me la passione per il
Caravaggio. Il mio professore di disegno figurativo era allora Piero
Ruggeri, siamo nel ’68 e Ruggeri era uno degli artisti più
importanti in Europa, nonché studioso dell’artista lombardo, in
tutto questo c’era qualcosa di simile ad una predestinazione.
D. A proposito di ispirazione, in quanto a stile e ideazione come
prendono forma i soggetti delle tue opere?
R. Nessun soggetto, molte percezioni, oniriche, trascendenti, la mia
percezione religiosa della vita come senso dello spirito e non della
dottrina catechistica. Nella mia pittura nessuna forma, molto
mistero.
D. Vai per tentativi, hai un'idea di partenza o l’opera, una volta
completata è una sorpresa anche per te?
R. Mi affido ad ambedue le opportunità. L’idea mentale è per me
inevitabile, essendo la mia pittura la sua emanazione. Per realizzare
ciò mi avvalgo di modelli che rendano visibile questa difficile
impresa. Sono gli umori e i colori di certa pittura sacra del
Tintoretto e del Caravaggio, da cui tolgo le figure sostituendole con
un linguaggio segnico, fatto di sottili segni bianchi intersecati e
sospesi.
D. Tecnicamente come inizi un’opera, hai un metodo preciso?
R. Spremo direttamente dai tubetti i colori, scegliendo le varie zone
della tela, dopodiché stendo il materiale con le spugne ottenendo
fino a sette, otto venature di colori. Umidificando e asciugando le
spugne, in alcune parti del dipinto faccio rinvenire i colori
sottostanti. Tutto avviene nel difficile, a volte estenuante,
equilibrio complementare tra velocità dell’esecuzione e controllo
dei pesi e contrappesi cromatici sino a che il dipinto regge ogni
ragione per cui è stato iniziato, lavorato e terminato.
D. C’è un movimento o un artista in particolare che ami o hai
amato di più?
R. Amo e ho amato molto Caravaggio. Ho riscoperto Giorgione,
grandissimo veneziano, a cui in parte Caravaggio si è ispirato. Per
quanto riguarda il contemporaneo, dal ‘900 ad oggi, la mia
curiosità onnivora non mi esclude nulla, ma la mia selezione
chimica distilla pochissimi nomi: penso alla poesia dell’arte
povera di Calzolari, alla meravigliosa pittura struggente e affaticata
di Depisis, all’espressionismo mondano e ironico di Mino Maccari,
alla trasfigurazione surrealista di Luigi Ontani (per me il più
grande pittore, disegnatore e ceramista italiano di oggi) ed infine
all'opera del tedesco Gerhard Richter, erede di una visione della
pittura rinascimentale che egli è stato capace di destrutturare,
mantenendone intatta la monumentalità espressiva, cromatica e
drammaturgica, diventandone il più grande interprete moderno. E’
uno dei rari casi in cui si può parlare di pittura contemporanea in
cui la bellezza e il magistero sono evidenti e incontrovertibili.
D. L’immaginazione, la realtà, il mito: c’è una poetica precisa
nella tua opera?
R. Sì, il viaggio interiore.
D. La tua idea di te, come pittore, come artista: pensi di aderire in
qualche modo a un qualche movimento o corrente pittorica o puoi
affermare di sentirti libero da legami accademici?
R. Come sempre le denominazioni finiscono per essere etichette che
circoscrivono linguaggi che spesso si intersecano, sconfinano, si
contraddicono. La pittura è un’arte fluida e credo che lo sia
anche il suo pensiero. Diciamo che mi capita di ripercorrere in parte
strade già tracciate, ma lo faccio con tutta la buonafede del mio
personale cammino.
D. Rispondi semplicemente a un tuo bisogno espressivo interiore o
avverti anche la spinta di motivazioni esterne al tuo io che ti
invitano all'impulso di dipingere, o ti rendono impossibile
ribellarti ad esso?
R. Gli artisti fanno parte della fauna umana, sicchè tra loro vi
sono genii, sregolati, lucidissimi razionalisti e artisti mediocri
(magari sopravvalutati perché furbi). Chi si mette seriamente in
arte è un cercatore e non di oro. E’ un cercatore di ristoro dalla
vita seriale, uno che si fa domande, si pone dubbi, uno che quando
guarda un oggetto o un soggetto li ribalta con un pensiero che non
esiste nei cosiddetti luoghi comuni. E’ dunque qualcuno che ha
bisogni e urgenze più impellenti e dirette di coloro i quali
tesaurizzano tutto nelle strategie.
D. Secondo te, l’arte è da considerarsi superflua o elitaria
oppure ha ancora una funzione sociale?
R. Dire che l’arte è superflua è come dire che è superfluo che
l’uomo esista. L’arte è un linguaggio, dunque non sta solo nella
storia, ma è anche il valore poetico e intellettuale
dell’antropologia culturale. Questo è forse superfluo? Non so se
la storia sociale si faccia cambiare dall’arte o se l’arte abbia
una tale forza, ma certo l’arte in alcuni momenti storici aiuta a
valutare tutta una serie di elementi non così evidenti nei lunghi
istanti che corrispondono ai cambi di paradigma. Nella società
odierna, dove le responsabilità sociali, civili, storiche, mi paiono
assai vacanti, l’arte è sempre più autoreferenziale. Non si
capisce dove sta il mondo e l’arte non fa il mondo.
D. L’artista può essere anche parte del processo di mediazione
dell’opera? E della Critica dell'arte, che cosa pensi?
R. La prima domanda pone in essere problematiche assai delicate.
Ritengo auspicabile che, sino a quando sia possibile, l’autore
debba avere voce in capitolo sul valore intellettuale della sua
opera, come ragionevole tutela di un manufatto che è emanazione
esistenziale dell’artista stesso. Per quanto riguarda la Critica ho
lo stesso pensiero che ho nei riguardi dell’intelligenza e della
stupidità. Esistono; la qual cosa è una realtà ineludibile con cui
fare i conti.
D. Che rapporto hai con i tuoi quadri?
R. Il rapporto che ho con i miei quadri terminati è inesplicabile.
Li sottopongo ad un continuo esame che può durare anche per mesi e
mesi; li avvicino tra loro per scoprire eventuali relazioni come
risultanti del mio inconscio e delle mie attitudini strutturali
relative alla produzione, alla riproduzione, alla ricerca, alla
comprensione; apro e socchiudo gli occhi nel guardarli intanto che li
metto sotto luci diverse; faccio uno sforzo di pensiero visionario
per vederli calati in ambiti diversi, li guardo a dieci centimetri
dalla tela o a sei, sette metri di distanza. Alla fine non c’è
alcun giudizio definitivo, niente di così chiaro. Li amo tutti; non
ne amo nessuno. C’è qualcosa di ancora insufficiente. E’ ora di
ricominciare.
D. E’ importante per te il linguaggio pittorico? Credi sia
intrinseco all'arte il dono di riuscire a comunicare cose importanti
attraverso opere che abbiano qualità che tendono all'universale?
R. Dipende dal periodo storico. Se penso a Giotto, penso al primo
pittore moderno. Per me, riferito a lui, “moderno” significa che
egli è stato capace di cambiare le regole, il linguaggio e la visione
del mondo senza voler per questo cambiare il mondo, di trasmettere la
sua idea della realtà su un piano critico più articolato, segnando
forse lo stacco tra la percezione della perfezione accademica e la
riproduzione di ciò che invece è chiaro ad ogni uomo. E’ ciò che
fa Giotto dopo 950 anni di arte greco-bizantina, quando le figure
sacre erano fisse, ieratiche, seriali, dogmatiche; egli è capace di
introdurre sfondi architettonici come scenografie teatrali, di
muovere le masse degli “attori” all'interno di quelle scenografie e, perciò, di mostrare gli uomini con le
loro storie con il notevole proposito di comunicare con il popolo in una lingua comprensibile, un vero e proprio volgare pittorico. E’ un
cambiamento epocale e da allora la pittura ha preso a condividere le
sue domande sull’uomo e la sua storia, spesso in modo assolutamente
coinvolgente attraverso una forte spinta all'immedesimazione del
pubblico.
Oggi abbiamo a che fare – anche – con altri mezzi di
comunicazione e penso che ci siano in ballo giochi mercantili che
distraggono l’arte e l'approccio ad essa. Ma, se è vero che la
sensazione di una qualche forma di assenza di categorie moderne
sublima tutta la preziosità dell'arte, riesco, nonostante ma anche
grazie alla sensazione della presenza assurda di un qualche vuoto, a
provare una sorta di nostalgia diacronica di un'arte che corrisponda
completamente ai nostri tempi.
Dice di sè E.P. Gavazzoni:
"La mia ricerca.
Ragioni di lavoro mi hanno per molto, molto tempo allontanato dall'esercizio costante della pittura.
Ma ho ripreso a studiare Storia dell'Arte, disegno, pittura tre anni e
mezzo or sono fino a produrre una serie di lavori frutto di una sorta di
allenamento.
La produzione che io considero più matura è di questi ultimi quattordici
mesi e corrisponde ad una trentina di pezzi tra i quali una quindicina,
a mio avviso, più interessanti rispetto agli altri.
E' la ricerca interiore che mi preme nella declinazione della mia
visione spirituale dell'uomo, anche religiosa, non tanto nel senso
dottrinale dei termini e delle applicazioni comportamentali ma
soprattutto in quanto all'attenzione a valori più profondi come, per
esempio, l'esplorazione della dimensione onirica e di quella del mistero
dell'origine e delle risultanze della poesia.
L'impianto estetico dei miei dipinti trae spinta dall'amore giovanile ma
tutt'altro che sopito per la pittura più tenebrosa del Tintoretto e per
quella delle ombre e delle improvvise luci del Caravaggio.
La mia è una ricerca, se si vuole, anacronistica; una sorta di anamnesi,
quasi al riconoscimento delle ragioni, da me non condivise, di quei
molti luoghi deputati nei quali si celebra la sparizione della pittura."
E' un'intervista a cura di DASTRA e Hugo Beaumont / Pierangelo Cardia.
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